La situazione lavorativa per la maggior parte dei giovani è diventata un problema insormontabile. I dati ci dicono che ad oggi un giovane su tre è senza lavoro. Secondo i dati diffusi dall’Istat il tasso di disoccupazione si attesta all’8,9%. Si tratta del dato più alto dall’inizio delle serie storiche mensili dell’Istat, cioè dal 2004. Il numero dei disoccupati, pari a 2 milioni e 243mila, è aumentato dello 0,9% rispetto a novembre (20 mila unità). Su base annua si registra una crescita del 10,9% (221 mila unità in più ). Si tratta del dato più alto da gennaio 2004 (l’inizio delle serie storiche mensili) e se ci si riferisce alle serie trimestrali si torna ai livelli del 2001. I più colpiti sembrano essere gli under 24. Il tasso di disoccupazione giovanile è pari al 31%, il 3% in più rispetto a dicembre 2010 (era al 28%). La disoccupazione giovanile è sopra al 30% per il quarto mese consecutivo e cioè da settembre 2011. Secondo la Cgia di Mestre (’associazione locale degli artigiani e delle piccole imprese), però, il dato non rappresenta la situazione reale del paese, che è ancora più grave: se si considera anche chi non cerca un lavoro perché convinto che non lo troverà e gli inattivi, i giovani tra i 15 e i 24 anni senza lavoro sono quasi 4 su 10 (il 38,7%). Con picchi in Campania (51,1%), Basilicata (48,3%) e Lazio (42,5%). A dicembre gli occupati erano 22 milioni e 903mila, un livello stabile rispetto a novembre. Rispetto al 2010 sono calati dello 0,1% (-23 mila unità). Secondo la Cgil “prima della crisi gli occupati erano 700 mila in più, se non ci fosse stata la cassa integrazione e in particolare la Cig straordinaria e la deroga, i disoccupati sarebbero oggi più di 3 milioni”.*
Sono dati che devono far riflettere. Ma a mio parere ciò non sta accadendo almeno ai livelli che dovrebbero, molto teoricamente, curarsi di attuare riforme serie proprio in questo campo così delicato. Invece, siamo costretti a leggere affermazioni, che definire “cadute di stile” è a dir poco riduttivo come l’ultima affermazione del nostro Presidente del Consiglio Mario Monti quando ci dice che l’idea del posto fisso deve essere abbandonata perché monotona. Parlando con alcuni coetanei posso affermare senza ombra di dubbio che in molti non credono più nemmeno nel posto a tempo determinato e nemmeno si pongono la possibilità di ottenerne uno a tempo indeterminato. Quest’ultimo, infatti, viene visto come un traguardo irraggiungibile. Questa sfiducia nel sistema non può far altro che tradursi, nel migliore dei casi, in una voglia di abbandonare la propria nazione e infatti l’Italia è il secondo paese europeo per emigranti dopo la Romania. Questa sfiducia però può anche essere tanto acuta da far perdere la fiducia nelle istituzioni in generale percepite troppo distanti da se e non in grado di poter accompagnare il soggetto in quel processo di realizzazione personale come in realtà dovrebbe essere (la Costituzione Italiana all’art 3 sancisce infatti che “…è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”). La legge Biagi ha reso precaria la vita, non solo il lavoro, di molti giovani, rendendoli incapaci di avere un’indipendenza economica e sociale. Non si riesce a capire come mai in Francia la legge sul primo impiego è stata ritirata dopo poche settimane di proteste studentesche mentre invece in Italia resiste senza opponenti dopo anni creando situazioni che hanno del paradossale. Ragazzi neo diplomati o neo laureati che nel migliore dei casi saltano da un lavoro all’altro, senza prospettive subendo contratti di lavoro, come il cosiddetto C.A.C acronimo di contratto a chiamata. Quest’ultimo rappresenta uno dei tanti esempi di contratto di lavoro oggi esistente, uno dei tanti “meravigliosi esempi” di ciò che il processo di progressiva mercificazione del lavoro ha prodotto. Secondo questo contratto il datore di lavoro, contatta il suo lavoratore a seconda delle esigenze aziendali. Questo significa che, tralasciando l’aspetto della prospettiva di lavoro e badando ad ambiti molto più terreni e diretti, il lavoratore ogni primo del mese non sa ne per quanti giorni lavorerà ne di quanto potrà materialmente disporre per il suo sostentamento. Si è ormai fatta spazio nei vertici governativi l’idea che una maggiore flessibilità porti ad una maggiore occupazione ed è per questo che queste tipologie di contratti, in alcuni paesi come il nostro hanno sempre più spazio. A dimostrazione del fatto che la volontà è quella di rendere più flessibile possibile il lavoro o al massimo mascherare questo concetto utilizzando altri termini più esotici come flexisicurity (filone di pensiero economico che cerca in ambito lavorativo di miscelare i concetti di sicurezza e di flessibilità) è dimostrata da alcuni recenti studi pubblicati da L’OCSE, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, una delle più popolari organizzazioni internazionali che si occupa di studi economici. Quest’ultima ha ideato un indice detto EPL (Employment Protection Legislation) attraverso il quale si misura, attraverso l’uso di alcuni parametri, il livello di rigidità della legislazione a protezione del lavoro in un determinato stato. Ovvero quanto le leggi di un certo stato difendono i diritti dei lavoratori. Per capire, invece, quanti posti di lavoro sia in grado di creare un determinato sistema economico è opportuno paragonare l’indice EPL al cosiddetto Job turnover, che rappresenta cioè il numero di posti creati da un certo sistema economico in un dato periodo di tempo, solitamente un anno. Secondo l’OCSE ad un maggiore EPL corrisponde un minore Job turnover e quindi una minore capacità del sistema economico di creare nuovi posti di lavoro. Sulla base di questi assunti la maggior parte dei governi persegue con sempre più determinazione una maggiore flessibilità sul lavoro, ovviamente Italia compresa. Non si capisce però come mai proprio l’Italia ha un EPL uguale a 4,1 e il suo Job turnover annuo è dell’1% circa. L’irlanda ha un EPL pari a 0,9 ciò significa che in questo paese non hanno una legislazione legata al lavoro così rigida eppure la capacità di questo sistema economico di creare posti di lavoro è uguale a -3,9% annuo, quindi inferiore all’Italia. Come mai? Ma viene ancora più da chiedersi come mai non vengono considerati tutti quelli che sono i problemi legati ai consumi che un individuo affetto, suo malgrado e contro la sua volontà, dal fenomeno del precariato possano avere a livello globale? Chi ha pochi soldi al mese per vivere come fa a consumare quanto la nostra economia gli chiede? Non può farlo, a meno che non ricorre all’indebitamento ed è ovvio che non tutti possono permetterselo, anche perché nessuna finanziaria concederebbe un prestito a chi oggi ha un lavoro e domani non si sa… . Questo comporta ovviamente una contrazione dei consumi e quindi una contrazione dell’occupazione poiché se le imprese non vendono non possono certamente assumere.
In conclusione penso che un programma di crescita serio debba essere in grado di massimizzare al massimo l’utilizzo delle sue risorse, ed il lavoro è ovviamente una risorsa. L’Italia necessita di politiche che siano in grado di sostenere la domanda di beni e servizi delle famiglie ma ha anche bisogno di politiche che vadano oltre la flessibilità. Necessita investire nella ricerca e nella conoscenza e sotto questo aspetto bisognerebbe fermare l’emorragia di fuga di cervelli dall’Italia. La flessibilità vista nell’ottica di una maggiore possibilità di apprendimento nonché di ampliamento delle proprie competenze può essere senz’altro un valore aggiunto per il lavoratore poiché può, entro certi limiti, ampliare le sue capacità e le sue conoscenze, specialmente in alcuni ambiti lavorativi. Ma se si vuole fare crescere la flessibilità si devono contestualmente elevare i livelli di protezione sociale a favore dei lavoratori flessibili. In alcuni paesi come l’Olanda e la Danimarca, queste politiche vengono di fatto attuate e il lavoro flessibile sia part time che full time è molto diffuso. In questi paesi i contratti atipici sono realmente solo una fase di transizione, infatti, le aziende hanno piena facoltà di licenziare ma con esteso preavviso. Inoltre, come accade in Danimarca dopo un certo numero di contratti a termine il lavoratore ha diritto all’assegnazione di un posto di lavoro a tempo indeterminato, le indennità di disoccupazione sono particolarmente elevate (90% dello stipendio) ma vengono immediatamente revocate se il lavoratore rifiuta di frequentare corsi di aggiornamento che hanno come fine il ricollocamento. In definitiva, il sistema danese è un sistema senza dubbio molto costoso ma di certo non si può affermare che la flessibilità così com’è attuata in Italia costi meno, anzi, e non solo in termini economici. Per attuarlo serve la volontà politica, ma fino a quando il nostro paese si ostinerà a voler far finta di imitare altri paesi europei senza risolvere alcuni problemi dalla radice continueremo ad attorcigliarci in riforme inutili e continueremo a formare professionalità, magari anche ricercate, per poi vederle migrare all’estero.
Gianluca Treccarichi
* Fonte dati quotidiano City edizione del 03/02/2012