In un periodo storico come quello che stiamo vivendo, caratterizzato da tensioni, conflitti e instabilità in molte parti del mondo, è doveroso fermarci un attimo a pensare a cosa possiamo fare, come comunità, per promuovere e difendere il valore inestimabile della pace.
La pace non è solo l’assenza di guerra; è un impegno quotidiano, un obiettivo da perseguire con determinazione e coraggio. La pace si costruisce nelle nostre famiglie, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e nelle strade delle nostre città, come Collegno. Si manifesta nel modo in cui trattiamo il prossimo, nella capacità di ascolto e nel rispetto reciproco.
Collegno è una città che ha sempre creduto nei valori della solidarietà, dell’inclusione e della convivenza pacifica. Tuttavia, anche qui, come in ogni altra parte del mondo, non dobbiamo mai dare per scontata la serenità che viviamo ogni giorno. Ogni gesto, ogni parola e ogni decisione contribuiscono a costruire o distruggere la pace intorno a noi. Nel nostro contesto cittadino, la pace si traduce in iniziative concrete: promuovere l’educazione alla non violenza nelle scuole, sostenere il dialogo interculturale, combattere ogni forma di discriminazione e ingiustizia. È fondamentale che ognuno di noi, nel suo piccolo, si impegni a essere un ambasciatore di pace, coltivando valori come la tolleranza, l’empatia e la cooperazione.
A livello globale, il panorama è drammaticamente purtroppo segnato da conflitti armati, crisi umanitarie e violazioni dei diritti umani. Pensiamo alle guerre in corso, ai milioni di sfollati e alle comunità distrutte. Ogni conflitto porta con sé un enorme carico di sofferenza e lascia cicatrici profonde che spesso durano per generazioni. Oggi più che mai, il mondo ha bisogno di pace, di dialogo e di riconciliazione.
È importante ricordare che la pace non si costruisce soltanto con trattati internazionali o interventi diplomatici, ma anche con le scelte quotidiane di ogni singolo individuo. Ognuno di noi ha il potere di influenzare il mondo, di fare la differenza attraverso piccoli gesti: accogliendo, ascoltando, aiutando chi è in difficoltà.
Il nostro compito è quello di educare le nuove generazioni all’importanza della pace, affinché comprendano che ogni forma di violenza è una sconfitta per l’umanità intera. I giovani devono essere i protagonisti di un futuro migliore, un futuro in cui le differenze non siano causa di conflitto ma fonte di arricchimento reciproco.
La pace è un valore che va coltivato, giorno dopo giorno, con azioni concrete, con il dialogo e con la volontà di costruire ponti anziché muri. Se ognuno di noi farà la sua parte, potremo sperare in un mondo più giusto, più sicuro e più umano.
Collegno può e deve essere un esempio di come la pace si costruisca con la collaborazione di tutti. Dobbiamo continuare a lavorare insieme per una città in cui ogni persona possa sentirsi accolta, ascoltata e rispettata. E da qui, dal nostro impegno locale, può partire un messaggio forte di speranza per il mondo intero.
Rendiamo la pace una realtà quotidiana. È il dono più prezioso che possiamo lasciare alle generazioni future.
Di seguito riporto la lettura oggetto della mattinata che ha preceduto l’inaugurazione del nuovo viale intitolato a Gino Strada
“Cari ragazzi, voglio raccontarvi il mio lavoro. Io sono un chirurgo di guerra:
“E che vuol dire ‘chirurgo di guerra’ ?” è la domanda che mi farete voi.
Allora devo spiegarvi che faccio sì il chirurgo, ma che non sono un militare. Il mio mestiere può sembrarvi strano; ma parlando di quello che succede in giro per il mondo, forse riesco a farvi capire che non è poi un lavoro così strampalato, che serve a qualcosa, vista la gran quantità di guerre che colpiscono il pianeta e la gran quantità di persone che ci vanno di mezzo.
Da bambino la guerra l’ho conosciuta solo dai racconti di mio padre. Noi bambini avevamo della guerra un’idea molto più “giusta” di quella degli adulti. Ci nascondevamo tra le siepi, indiani e cowboys, e ci affrontavamo in grandi battaglie; ogni tanto qualche finto ferito, prima di tornare a casa a fare merenda, ma nessuno si faceva male. Com’era bella la nostra guerra!
Quella vera, invece, non ci piaceva: era troppo brutta per i nostri giochi.
Mio padre mi raccontò anche di una scuola con tanti bambini dentro, nel quartiere di Gorla, a Milano. Fu colpita da una bomba lanciata da un aereo: morirono in 194, quei bambini con i loro insegnanti.
Perché? Non c’erano combattenti tra loro, perché bombardarli?
Qualche anno dopo ho saputo che, nella seconda guerra mondiale, erano morte soprattutto persone che non combattevano, cioè i civili: il sessantacinque per cento delle vittime.
Come i bambini di Gorla, o le donne in fila per il pane, o gli operai come mio padre che andavano in bicicletta al lavoro.
Qualche anno più tardi, nuove immagini: la guerra nel Vietnam.
Al telegiornale annunciavano che un villaggio era stato distrutto da un attacco aereo…ma chi c’era in quei villaggi?
Poi la guerra l’ho vista davvero, e da vicino, facendo il mio mestiere di chirurgo.
È strano, ma all’inizio mi sono ancora sorpreso. Era la prima volta che mi trovavo tra i feriti della guerra in Afghanistan: avevo immaginato di trovarmi in faccia a combattenti con la benda insanguinata sul capo, invece mi sono trovato a operare centinaia di donne e di bambini, di vecchi magri con la barba piena di polvere…
Allora ho cominciato a raccogliere i dati sui pazienti operati nei nostri ospedali: il novantatre per cento erano civili, il trentaquattro per cento bambini.
Non è stato diverso nelle altre guerre che ho visto in seguito: gente dalla pelle nera o dagli occhi a mandorla, tanti turbanti, tante guerre combattute per differenti ragioni in varie parti del mondo…ma sempre e ovunque la stessa terribile realtà.
Nei Paesi in guerra spesso non ci sono medici né medicine e il poco disponibile è riservato ai militari, ai combattenti. E i bambini, i vecchi, le donne, tutti coloro che non combattono, che la guerra non l’hanno scelta? Dove finisce il loro diritto ad essere curati?
Quel che facciamo per loro, noi e altri, quel che possiamo fare con le nostre forze, è forse meno di una gocciolina nell’oceano. Ma resto dell’idea che è meglio che ci sia, quella gocciolina, perché se non ci fosse sarebbe peggio per tutti. Tutto qui.
E’ un lavoro faticoso, quello del chirurgo di guerra. Ma è anche, per me, un grande onore.”